Dr. Giuseppe Musolino

 

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Appendice a La vita è bella.

 

 

Per la serie: io l’avevo detto. Non mi piace unirmi al coro delle polemiche dialettiche scatenatesi nel post-mondiale, ma mi tocca farlo. Ci ho pensato a lungo, ne hanno scritto tutti, ma alla fine mi sono detto: non vedo perché le critiche non debbano provenire anche da queste pagine, sulle quali in fondo anche di sport si parla e sulle quali, ripeto, era stato tutto scritto. Purtroppo, questo pezzo andrà in stampa tardi rispetto agli eventi, quando probabilmente l’eco si sarà ormai spenta, ma credo che alcuni passaggi possano tornare attuali in qualunque periodo storico.

Riepilogo delle puntate precedenti. Nel mio La vita è bella, pubblicato sul numero di Maggio-Giugno di Cultura Fisica, ricordavo le imprese eroiche della nostra nazionale di calcio contro entrambe le Coree: la sconfitta, con eliminazione, contro quella del Nord nel 1966 e l’altra disfatta, con altra eliminazione, contro quella del Sud nel 2002. Sconfitte, soprattutto la prima, che erano riuscite a farci ridere di noi stessi per i decenni a venire. Prima di giocare l’incontro del ’66, il ct Valcareggi aveva osato definire i nordcoreani «tanti ridolini, tutti uguali». Conoscendo i miei polli, e ampiamente prima dell’inizio dei mondiali 2010 (giacché l’articolo era stato consegnato ad Aprile), io scrivevo di fare attenzione a che in questo mondiale, attanagliati in un girone «di ferro con Paraguay, Nuova Zelanda e Slovacchia, non riuscissimo a far assurgere a eroi una nuova combriccola di ridolini. Ed ecco che siamo riusciti a fare peggio, molto peggio della sconfitta contro la Corea del Nord. Gufo, cassandra, menagramo? Fate voi, io continuo a dire che conosco i miei polli. Siamo riusciti a tramutare in eroi non una, ma ben tre squadre meno che insignificanti, e a consacrarci definitivamente, noi, come una squadra di ridolini.Si farebbe presto a definirla una squadra di indegni, la nostra. Invece no, diciamo le cose come stanno: questa è stata una squadra degnissima. Degnissima di un popolo abituato a vivere di niente. Degnissima di un popolo avvezzo a essere vessato. Il «popolo minuto», come se ne beffa neanche tanto celatamente Costanzo. Il popolo che aspetta i mondiali di calcio come il Natale, per poi vederseli scippare da Sky. Il popolo che vive di trentasei ore di lavoro settimanali, di milleduecento euro al mese, di trenta giorni di ferie all’anno. Di compleanni, riunioni di condominio, centri commerciali, cinesi, venevaricose, pensioni micragnose, trattative riservate coi vu’cumpra’, fiction, reality, fiction, reality, fiction, reality, fiction, reality, fiction, reality. Di partite in tv, frittatone e rutti liberi. Di banane e perenni inculate. Come quelle rifilateci da una squadra che sembrava una cricca di uomini d’affari in viaggio premio. Vecchi, spenti, annoiati. Ma soprattutto rotti. Infortunati, precari, scassati, scaduti. Ma come, io nei mondiali del 2002 non ho potuto vedere in campo Baggio, dico Baggio, non convocato dall’onnisciente di turno (Trapattoni: sì, proprio quello della convocazione in nazionale del signor Bettarini in Ventura) perché «ai mondiali non si può portare gente non al massimo della forma», e ora mi ritrovo in campo un’accozzaglia di anonimi catorci pronta per il macero?! Ma qualcuno al vertice che dia una regolata alle decisioni cervellotiche di questi sbiellati, c’è? Quest’anno ci è (ri)toccato sorbirci un despota che, reduce da un mondiale vinto col culo (uno a zero su rigore, regalato, al 90° contro l’Australia; l’Ucraina ai quarti; la finale vinta ai rigori…), ci ha guardato sempre dall’alto in basso, agendo come se la nazionale fosse cosa sua” e non un bene del paese. Un insolente che ha iniziato piagnucolando e ha concluso in un delirio di onnipotenza. Prima frignava perché gli italiani si erano disinteressati alla squadra e poi si lamentava perché gli stessi lo contestavano, vedi a Parma allorquando con la sua arroganza invitò il pubblico, che giustamente già lo criticava, ad andare a lavorare. Oppure a Sanremo, dove sempre tra i fischi ebbe l’ardire di sposare quell’altra burla nei nostri confronti di un principe straniero che voleva fa’ l’italianomedio. E ha continuato a ignorare ogni presagio anche a mondiale in corso, ammonendo i giornalisti che le ipotesi di disfatta avrebbero dovuto esser fatte dopo, ad eventuale eliminazione avvenuta (che razza di ipotesi sarebbero state, dopo?!): «I cavalli ci contano al palo, Johnny». E a tracollo avvenuto che ha fatto? Se n’è uscito con l’ennesimo sberleffo dittatoriale: «La colpa è mia: niente processi, please». Ma non dovevamo contare i cavalli? Troppo comodo, bello. Non sappiamo che farcene ora della tua assunzione di responsabilità. Vuoi forse dirci anche «Non lo faccio più»? Troppo comodo e troppo facile. Troppo comodo, troppo facile e talmente assurdo da essere vero. Ti aspetti non dico un linciaggio o delle statuette del Duomo sui denti, ma almeno i pomodori stile post-Corea66 al ritorno in patria, e invece neanche quello. Un popolo talmente annichilito da non avere più le forze neanche per urlare il proprio sdegno. «Gli italiani hanno scelto la via dell’indifferenza», ha detto qualcuno. Un cazzo, amico. Gli italiani sono intorpiditi nei sensi. Intontiti, rintronati, rabboniti, imbolsiti. Inebetiti da decenni di abusi e soprusi fatti passare per normalità. Per questo non insorgono. Giova a questo proposito ricordare l’accoglienza ricevuta in patria dalla Corea del Nord dopo la sua eliminazione da questo stesso mondiale: giocatori «esposti» sei ore in piedi su un palco a prendersi gli insulti e lo scherno del popolo e allenatore mandato a lavorare in un cantiere edile. «Abbiamo già chiesto scusa, abbiamo fatto tutti mea culpa», si è giustificato quasi scocciato qualche eroe di questa combriccola di pensionanti nostrani. Come a dire: che volete ancora?, vi abbiamo già detto che non lo facciamo più… Abbe’, allora tutto è a posto. Tutto è già dimenticato. La gente si spara nei bar per questioni di calcio, mentre questi se ne vanno a zonzo giulivi sui propri yacht. A settembre un’ospitata televisiva di quelle giuste, e via: tutto definitivamente perdonato. Mentre noi continueremo ad alzarci alle sette meno cinque per andare a lavorare.

            Quante ancora dovranno farcene prima di reagire?

 Un’ultima cosa. Sempre prima dell’inizio dei mondiali, quando l’Argentina era riuscita a qualificarsi per il rotto della cuffia e tutti criticavano Maradona al punto da esasperarlo e portarlo a sbottare il «que me la chupen» che gli costò una squalifica di due mesi, concludevo il succitato La vita è bella con un impavido «forza Diego!». Appena si è visto che la squadra andava forte al mondiale (comunque poi sia andata a finire, con l’Argentina meritatamente eliminata dalla Germania), tutto il gregge si è messo ordinatamente in fila per due e si è pronato a D10: «Io lo adoro», «Io lo amo», «Io l’ho sempre amato»…

            Come ci si può aspettare che un simile armento di pecoroni reagisca mai?

 

 

 

 

In questo articolo non è stato fatto alcun uso della parola vuvuzela.